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I Migliori Videogiochi di Questa Generazione – Parte Terza

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Ogni generazione videoludica ha i suoi splendidi perdenti, ovvero giochi coraggiosi, refrattari alle mode del momento, lodati dalla critica specializzata più esigente, ma spesso incapaci di ottenere un successo commerciale tale da poter consolidare il proprio nome, sino a farlo diventare un brand. Si tratta di un fenomeno naturale, se analizzato senza velleità controculturali, dato che ogni prodotto con una personalità ben connotata trova giocoforza maggiori difficoltà nel farsi apprezzare da un pubblico ampio ed eterogeneo.

[Leggi la Parte Prima e la Parte Seconda]

Va detto, però, che l’epoca che si sta chiudendo è stata particolarmente spietata in tal senso, poiché ha visto una verticale impennata delle aspettative di vendita fissate dai produttori di videogiochi, le quali sono risultate talvolta così pretenziose da rasentare l’assurdo, precludendo il proseguo e l’evoluzione di molti titoli potenzialmente interessanti. Non stupisce, quindi, che nella seguente top ten, stilata con l’intenzione di premiare innanzitutto l’originalità e l’individualità, siano presenti diversi ‘underdog’, prodotti innovativi, di riconosciuta eccellenza, ma la cui bontà, da sola, non è stata sufficiente a garantire loro un futuro.

Allo stesso tempo, si trovano anche giochi che, coniugando con intelligenza soluzioni appetibili al grande pubblico e spunti totalmente inediti, hanno creato un’alchimia seducente, capace di penetrare come un cavallo di Troia nell’immaginario mainstream e di rivoluzionare alcuni stilemi videoludici.

Insomma, nella guerra combattuta a colpi di dati di vendita e voti su Metacritic, pare che gli sviluppatori maggiormente visionari si trovino di fronte all’epico dualismo tra Ettore e Ulisse, dovendo scegliere se morire eroicamente o vincere con l’astuzia. In futuro, per pompare nuove idee nell’intrattenimento elettronico, potrebbe rivelarsi sempre più utile saper mimetizzare le idee originali sotto una patina che ammicchi al gusto popolare. Del resto, un piccolo ‘inganno’ è perdonabile, se messo in atto al fine di “seguir virtute e canoscenza”.

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10 – Saints Row the Third

Saints Row the Third è quasi un’operazione di semantica applicata al game design, capace di portare a galla il significato più intimo di ‘sandbox’ attraverso un mondo virtuale che non ha pretese di simulare la realtà, ma è concepito come un immenso parco giochi, folle, psichedelico, popolato da personaggi assurdi, in cui l’unico obiettivo è quello di divertirsi liberamente. A questo fa eco una sceneggiatura che sostituisce il cinismo splatterpunk anni Novanta di Grand Theft Auto con l’ironia a base di citazionismo pop-culturale e geek, tipica degli anni Zero. Il risultato è un’interpretazione del free roaming coraggiosa e sopra le righe, in grado di demolire con un colpo di piccone l’icona stantia dell’antieroe criminale, sostituendola con una manica di scapestrati che sembra uscita fuori da un film di Guy Ritchie.

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9 – Bioshock

Utilizzando come testa d’ariete l’intramontabile successo dei first person shooter, Bioshock introduce nel linguaggio videoludico elementi estetici, narrativi e di game design tanto arditi quanto efficaci, ai quali si conformerà buona parte della successiva produzione a tema, da Rage a Dishonored. L’idea di combinare poteri paranormali e armi da fuoco conferisce un’inedita ‘fisicità’ agli scontri e apre uno spettro pressoché infinito di possibilità di utilizzare strategicamente l’ambiente circostante. La cura maniacale riposta nel tratteggiare in maniera credibile un mondo assolutamente surreale, senza farne svaporare l’aura d’incanto, dona sostanza a una trama tutt’altro che banale, nonché basata su scelte morali che hanno un effetto diretto sul giocato. Insomma, Bioshock è l’Half-Life 2 di questa generazione.

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8 – Alan Wake

Il modo migliore per superare una crisi è quello di comunicarla intensamente e in maniera personale. Con Alan Wake, lo scrittore finlandese Sami Järvi  racconta il calvario del blocco creativo attraverso una sceneggiatura cupa, kafkiana e dalle tinte orrorifiche, ma anche carica di verità, tanto da riuscire a trasformare gli elementi di gioco inediti, posti a cardine del gameplay, in simbolismi funzionali a trasmettere un preciso stato d’animo. Combattere le ombre dei personaggi partoriti dalla propria penna, vagare di notte per un’immensa foresta buia, pressoché priva di elementi interattivi che inneschino la narrazione, e trovare le parole giuste (letteralmente) per non farsi divorare dal vuoto sono una metafora assai potente. Allo stesso tempo, il gioco svecchia le meccaniche tradizionali del survival horror senza aggrapparsi alle soluzioni di stampo third person shooter utilizzate dalla concorrenza (Dead Space, Resident Evil 5). In una parola sola: rigenerante.

 

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7 – Deadly Premonition

In Deadly Premonition si respira l’aria pura e rarefatta dell’opera visionaria, carica di vibrazioni emozionali, a tratti scomposta e poco rifinita, ma dalla personalità coinvolgente. Al pari di un pittore surrealista, Hidetaka Suehiro sembra aver ideato il gioco sotto la guida del proprio subconscio, mescolando tra loro macabri echi lynchiani à la Twin Peaks, momenti survival horror tanto superflui dal punto di vista ludico quanto tarlanti sul piano psicologico, digressioni puramente oniriche ma foriere di simbolismi sottili e una trama sviluppata attraverso uno straordinario narratore inaffidabile, degno di Fight club. Come il protagonista del romanzo di Palahniuk, il giocatore deve ‘scivolare’ sopra i risvolti (apparentemente) assurdi degli eventi per rimanere aggrappato alla sospensione dell’incredulità e lasciarsi permeare da un’esperienza intima, toccante, profonda e rivelatrice, come poche se ne sono viste in ambito videoludico dai tempi di Silent Hill 2.

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6 – No More Heroes

Goichi Suda abbraccia al volo le peculiarità del sistema Wiimote introdotto da Nintendo per rompere la quarta parete. No More Heroes gioca con il videogiocatore e, allo stesso tempo, si prende gioco di lui in maniera scanzonata, calandolo sino in fondo nei panni di un antieroe NERD. La furia della battaglia si mescola al collezionismo otaku, al voyeurismo ironico e alle fisime geek, il tutto attraverso azioni reali. Così, l’esaltazione di uccidere in duello l’avversario virtuale, menando un preciso fendente di katana laser con il controller, va a braccetto con la necessità di ricaricare l’arma attraverso un movimento concitato, dalla chiara dinamica onanista. In sostanza, gli scontri sfumano in una specie di recita autoironica sui cliché legati ai ‘gamer’, in stile Scott Pilgrim VS the World. Sullo sfondo di questo teatrino si rintraccia anche un messaggio non scontato e tutt’altro che sarcastico sull’amore. No More Heroes è un gioco serio per non prendersi sul serio.

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5 – Batman Arkham City

Batman Arkham City è un esempio paradigmatico di come sia possibile donare un seguito brillante a un gioco ben riuscito, senza imboccare il sentiero del ‘more of the same’. Batman Arkham Asylum aveva tradotto in termini videoludici tutta la complessità di Batman, creando un’eccellente alchimia tra elementi action, stealth e puzzle adventure, che riproducevano gli aspetti da vigilante, da “guardiano silenzioso” e da investigatore, propri dell’Uomo Pipistrello. Con Arkham City, gli sviluppatori di Rocksteady portano coraggiosamente questa complessa formula di gioco su scala open world, senza far perdere freschezza o spessore al gameplay, ma, piuttosto, arricchendolo con elementi che valorizzano la vastità e la versatilità dell’ambiente sandbox. Così, il Cavaliere Oscuro incontra nel migliore dei modi la sua Gotham City e i tecnicismi ludici degli action game fanno il loro ingresso nei territori del free roaming. In altre parole, un tie-in praticamente perfetto e, al contempo, un gioco sottilmente rivoluzionario.

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4 – Vanquish

Vanquish è puro postmodernismo arcade, una rilettura schietta della poetica coin-op di metà anni Ottanta che ignora bellamente l’idea di futuro dell’intrattenimento elettronico proposta dal videogioco mainstream. Shinji Mikami confeziona un action game ‘no-frill’, dai ritmi sincopati, adrenalinici, senza momenti morti, dove il carattere tecnico del gameplay si esprime attraverso una struttura immediata, grazie a regole semplici e ben studiate. Ritorna, così, il concetto di sfida videoludica old school, secondo cui l’ostacolo si deve superare coordinando riflessi ben temprati, memorizzazione precisa dei pattern offensivi dei nemici e pianificazione strategica maturata a suon di trial and error. E chi non nutre l’ambizione di raggiungere record invidiabili può semplicemente godersi il viaggio, sfrecciando tra orde di androidi dalle forme più assurde e distruggendo a mani nude robot giganteschi, come in una sorta d’incrocio iperdinamico tra Strider e Casshern. Vanquish è un sincero ‘ritorno al futuro’, sotto ogni punto di vista.

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3 – Shadows of the Damned

Tre personalità fortemente autoriali del videogioco giapponese non possono che creare un testo ricco e poliedrico. Shadows of the Damned miscela le situazioni surreali e visivamente potenti di Goichi Suda con la perizia di Shinji Mikami nei giochi d’azione e survival horror, condendo il tutto con le musiche inconfondibili di Akira Yamaoka. Dalla poltrona di direttore, il nostrano Massimo Guarini concerta gli sforzi dei creativi nipponici, inquadrandoli nei toni della favola grottesca à la Tim Burton prima maniera. Il risultato è un gioco folle, imprevedibile, artisticamente suggestivo e dall’alchimia unica. La forza immaginifica che pulsa nella componente audiovisiva dialoga in maniera sorprendente con il gameplay. Grazie all’alternanza dinamica tra la dimensione di luce e quella fatta di ombre, i continui mutamenti estetici si sposano con il giocato, creando una specie di tunnel degli orrori interattivo, che sorprende e diverte, anche senza ricorrere a soluzioni ludiche assai elaborate. Shadows of the Damned è come un piatto creato da un grande chef: una sintesi semplice di sapori complessi.

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2 – Bulletstorm

Bulletstorm è un’esplosione di personalità, un gioco capace di utilizzare creativamente la struttura ludica degli FPS per plasmare una sorta di picchiaduro a scorrimento in prima persona, dove, al posto di calci e pugni, ci sono fucili e lanciarazzi. Attraverso scivolate stilose, pedate dalla potenza tellurica, un lazo al plasma multiuso, assurdi elementi ambientali interattivi e armi dagli effetti tanto folli quanto devastanti, gli sviluppatori di People Can Fly forniscono gli ingredienti di base per creare combo originali, da inventare sul momento, al fine di massacrare in mille modi diversi intere orde di nemici. L’unico limite alla diversificazione della mattanza è la fantasia sadica del giocatore. Il tutto è accompagnato da dialoghi gonfi di battute brillanti e da un design che strizza l’occhio all’illustrazione fantascientifica ‘maleducata’, come quella di Simon Bisley.  Esagerato, divertente e pieno di elementi inediti, Bulletstorm può guardare il buon vecchio Duke Nukem dritto in faccia e sbeffeggiarlo con un “hail to the king, baby!”.

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1 – Bayonetta

A Bayonetta si può giocare con una mano sola o consumando i polpastrelli sino a farli sanguinare, cavalcando una perfetta curva d’incremento del livello di difficoltà che risulta divertente in ogni suo punto. Hideki Kamiya guida per mano il giocatore svelandogli gradualmente tutti i risvolti di un sistema di gioco assai tecnico, senza nascondere segreti. Un esempio unico di gameplay accessibile e ‘didattico’, che si abbina a un comparto audiovisivo mesmerizzante, capace di creare un pantheon fantastico, dove convivono bizzarrie flamboyant e atmosfere misteriche. La regina di questo universo, poi, è uno dei personaggi femminili più riusciti della storia dei videogiochi e non solo per le evocazioni in enochiano a base di latex o le pistole montate sugli stivali tacco 15. Ironica, consapevole della propria sensualità, materna, determinata e misteriosa, Bayonetta è un’eroina completa, che non abbisogna di monologhi drammatici o cut-scene intimiste per mostrare a trecentosessanta gradi la propria femminilità. Anche per questo, Bayonetta è videogioco allo stato puro.



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